L’allarme l’ha lanciato Tomaso Montanari pochi giorni fa sulle pagine di Repubblica: cosa ci fa una gigantografia di una modella al posto dell’Obelisco di Portosalvo a Napoli?
La domanda non è dettata da moralismo: se a Napoli c’è una donna seminuda, a Venezia su Palazzo Ducale campeggia una bottiglia di Coca Cola, e il Ponte dei Sospiri è tutto foderato di rosso Scavolini: “Non è un caso isolato: Piazza San Marco a Venezia si sono presentate travestite da Piccadilly Circus o Times Square, con il Palazzo Ducale e il Ponte dei Sospiri letteralmente sommersi da enormi, coloratissimi, cartelloni pubblicitari. Trinità dei Monti a Roma è stata a lungo coperta da una forchettata di spaghetti e mazzancolle, Ponte Vecchio a Firenze è stato oscurato dalle posate offerte da una nota catena di supermercati, la cattedrale di Palermo ormai sembra un tatzebao, e la stessa San Pietro in Vaticano non è stata risparmiata.”
Certo, tutto è fatto a fin di bene, e tutto avviene alla luce del sole: privati finanziano una ristrutturazione e in cambio chiedono visibilità. Invece che comprare pagine su riviste patinate, si comprano mesi di gigantografie sulle facciate più viste al mondo.
La polemica non è nuova, e già nel 2010 il Guardian denunciava l’obbrobrio, rilanciando la lettera con cui i direttori del British Museum e del Museum of Modern Art di New York – e con loro una serie di personalità del mondo internazionale dell’arte e dell’architettura – chiedevano la fine dello scempio. Rispondeva, dalle colonne del Giornale, lo storico e critico d’arte Vittorio Sgarbi: “Le pubblicità sono meglio dei ponteggi, e senza i soldi dei privati questi restauri non sarebbero nemmeno possibili.”
C’è chi pensa che sia solo un fatto estetico: ma in tempi di Art Bonus, e di insistiti riferimenti al mecenatismo privato, la riflessione di Tomaso Montanaro si riveste di ineludibili accezioni etiche e culturali.
Perchè quando vengono rivestiti da capo a piedi da striscioni e immensi manifesti pubblicitari, i monumenti si trasformano “da luoghi di costruzione della cittadinanza a ennesime fabbriche di clienti, da strumenti di liberazione intellettuale a strumenti per la massificazione del consumo.” Fino a perdere la propria identità, come succede negli Stati Uniti, dove la pratica della sponsorizzazione è degenerata in una personalizzazione estrema e dove il “naming”, dentro e fuori il mondo dell’arte ha prodotto piccole e grandi aberrazioni: “Negli Stati Uniti la maggior parte delle squadre di baseball della Major League vende i diritti di denominazione dei propri stadi, così oggi abbiamo il FedEx Field e il Gilette Stadium. Dallo sport, la pratica è passata alle città: si sono cominciati a vendere i diritti di denominazione degli spazi pubblici (stazioni della metropolitana, stazioni ferroviarie, parchi pubblici e sentieri dei parchi nazionali), in quello che si chiama marketing municipale (dal 2003 New York ha un direttore addetto solo a questo). Ma anche le macchine della polizia, le pompe antiincendio, le celle delle prigioni si sono letteralmente coperte di pubblicità.”
Per il filosofo della politica americano Michael Sandel la pubblicità è incompatibile con la cultura, “perché la pubblicità incoraggia le persone a volere cose e a soddisfare i propri desideri, l’istruzione incoraggia le persone a riflettere in modo critico sui propri desideri, per frenarli e per elevarli.” E, una volta (s)venduta l’identità di un monumento, che ne sarà dell’identità (storica, culturale, estetica) dei cittadini?
Eppure, la scelta della sponsorizzazione non è l’unica percorribile: basta guardare alla Francia: “Con cinque successive leggi approvate tra il 2003 e il 2009, lo Stato francese ha, per esempio, regolato e incoraggiato la pratica del (vero) mecenatismo, che grazie alla defiscalizzazione (del 60% del dono per le imprese, del 66% per i cittadini) e ad una sensibilizzazione di massa, oggi riesce ad incanalare 5 miliardi di euro l’anno (3 da persone fisiche, 2 dalle imprese) verso iniziative pubbliche. Il mecenatismo francese è indirizzato verso la cultura per il 26%: con un valore assoluto che eguaglia l’intero bilancio annuale del Ministero per i Beni culturali italiano. Oltre un miliardo di euro contro i 24 milioni che rappresentano ciò che riesce a fare il pur utile Art Bonus strappato con i denti da Dario Franceschini.”
E dunque, pubblicità e mecenatismo non hanno nulla in comune, se non i soldi: ma totalmente diverse, e probabilmente incompatibili, sono le premesse che stanno dietro ad un’azione di sostegno finanziario alla cultura.